Whitaker – #shortstory n.82

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Il mio difetto? Ho un carattere di merda.

Non voglio certo lamentarmi visto che è solo uno, ma ecco, è lì a ricordarmi che sono fatto della stessa materia dell’uomo comune. Uno di voi, insomma.

Però vuoi mettere la soddisfazione delle azioni che ne conseguono? Se qualcuno avesse da ridire, potrei incolpare lui, il mio carattere, e corro via leggero, senza scrupoli.

È tanto più eclatante quando viene fuori, perché i più mi riconoscono modi affabili e gentili. Il guaio è che, questi più, in maggioranza siano degli idioti e restano straniti quando li mando a fanculo cantandogliene quattro (quarantaquattro, in realtà), mostrando il mio lato bestiale, insensibile e senza cuore. Forse pure screanzato.

Non li reggo, non so che farci. Sulle prime mi riprometto di tacere e non considerarli, ma alla fine reagisco, a volte maldestramente e malamente, però con giustizia e onestà intellettuale.

L’istinto primitivo di discendente del cavernicolo mi vorrebbe portare a dargli un pugno su quell’espressione stolida, non avendo più la clava a disposizione. Riesco a trattenerlo nella mano, e poi ne sono felice. Salvo la dignità, almeno.

Ecco perché nell’ultimo cda ho fatto presente che chi non sa far applicare i contratti, dovrebbe dedicarsi ad altro. Detto così suona bene. Nella realtà è venuto fuori molto meno carino, senza la possibilità di farmi guadagnare punti: ho urlato, guardando dritto sulla faccia del malcapitato, declinando a una a una le incapacità e suggerendo, oltre alla corretta esecuzione, pure quale personaggio scemo dei fumetti sarebbe, invece, stato in grado di farlo senza problemi.

Almeno al lavoro, potrei liberarmi degli idioti esercitando il mio potere e il mio ruolo, lo so, ma vorrei che ognuno avesse il decoro dell’autoanalisi oggettiva, ammettere le proprie incapacità e togliersi dai piedi. Lavoro per un mondo migliore, quindi. Cerco di far crescere i miei interlocutori e collaboratori, ma molti sovrastimano sé stessi e, così, anziché ammettere di essere inetti, dicono che lo stronzo sia io.

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Whitaker – #shortstory n.81

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Io e G. non siamo diventati amici. Per certi versi siamo stati di più. Quando l’ho conosciuto, io poco più di un ragazzo, lui poco sotto i sessanta, ha cominciato a farmi un sacco di domande, un vero e proprio terzo grado: da dove venissi, chi fossero i miei parenti, perché avessi quel nome e come si incastrasse comunque con le mie origini e cittadinanza. Poi, mi ha insegnato un mondo e tutte le cose che potesse contenere. I modi potevano sembrare bruschi, ma era solo perché ne aveva passate tante, da quando a sei anni fu costretto a cominciare a lavorare, fino all’ultima fregatura della vita che gli aveva tolto quasi in contemporanea moglie e fratello. E prima c’era stata la penultima fregatura, da un suo amico, perché degli amici ci si deve fidare, mi disse e quindi lui si era fidato, proponendogli un affare da fare insieme. E me ne aveva parlato commosso, senza che sapessi cosa ribattere. L’affare, anni dopo, si era rivelato proprio grosso, di quelli che ti fanno svoltare e lui aveva visto giusto. E pure l’amico, però, che approfittando della soffiata, l’aveva poi fatto senza soci, lasciandolo solo con l’amarezza non dei soldi non guadagnati, ma della delusione. E nonostante questo, ancora si fidava delle persone, dandomi l’onore della sua fiducia. E io di lui, ovvio, ma a me veniva facile.

L’ultima volta che l’ho sentito eravamo al telefono: stava andando in clinica per un’operazione che non sospettavo nemmeno e non sapeva se ce l’avrebbe fatta. Voleva salutarmi. Gli augurai il meglio e gli chiesi di farmi sapere appena sarebbe uscito che sarei andato a fargli visita. Dopo qualche giorno, ricevetti un messaggio. Quando vidi il nome sullo smartphone fui contentissimo, con gli occhi che mi brillavano di gioia. Era invece un messaggio della famiglia che mi comunicava che G. non ce l’aveva fatta, ma ci teneva che sapessi. Divenne buio nella stanza con gli occhi che continuavo a brillare, ma le lacrime erano molto amare.

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Whitaker – #shortstory n.80

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Vedo la gente e la faccio scorrere, cercando di dimenticare, sperando di dimenticare. Poi cerco di guardare le persone, per farle rimanere. Difficile trovarle nella gente, di solito le persone stanno per cazzi loro, ma non per carattere schivo, perché si bastano. Devi uscire dalla gente per trovare le persone, un po’ come andare per funghi, devi essere esperto, paziente, determinato, sicuro, sapere dove andare, quando andare, quando e quanto fermarti, quando scappare. Molti cercano di essere persone, fanno come le persone, sembrano persone, ma a guardare bene si rivelano gente, però isolate, perché manco la gente le ha volute. Ho incontrato un bel po’ di gente, ma sono sempre contento quando incontro una persona,

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Whitaker – #shortstory n.79

Sto in silenzio, a volte, ma il silenzio non è mancanza di argomenti: è ascolto, è interesse. O è indifferenza. Comunque, una dimensione cercata, un’espressione voluta.

Agli stolti può sembrare mancanza di argomenti, ma non è questo il caso.

La prima volta l’ho ascoltato – in silenzio – con interesse, perché me ne avevano parlato benissimo e tendo a fidarmi delle persone che stimo. Avevamo, finalmente, il nuovo direttore marketing, arrivato con squilli di trombe, rulli di tamburi, fanfare, tappeti rossi. Mancavano i nani e le ballerine, ma sottotraccia il pagliaccio c’era, ero io a non saperlo ancora. Aveva il nome simile a un vescovo, l’aspetto del cardinale, il carattere di quei baroni all’università, che dopo un po’ sanno solo di stantio e sopruso. Vuoto nel profondo, fumo negli occhi, bile nel fegato.

Il primo giorno che ci incontrammo mi chiese di andare a cena insieme, accettai con entusiasmo, pur se mi costò annullare dei programmi precedenti. Andammo al giapponese e mi fregò con tutte le scarpe. Non per il menu, ovvio. Avemmo un proficuo dialogo sullo stato dell’arte, sui progetti in corso, sulle strategie, soprattutto, che sono quelle che mi appassionano di più. Ci lasciammo andare anche a un discreto gossip, ma giusto per qualche risata senza cattiveria. Ero convinto avessimo trovato la persona giusta, più concreto e produttivo del predecessore, bravissimo e serio, ma poco incisivo.

Alla seconda riunione, cominciarono a venire fuori l’anima e la natura del personaggio: era tutto infarcito di autoreferenzialità, anche laddove non necessaria, tutto un susseguirsi, di “questo l’ho inventato io”, “questo l’ho fatto io”, “questo me lo hanno copiato”, “c’era uno sfacelo, figa, fortuna che sono arrivato”.

Gli squilli sono presto diventati stridii e non ha prodotto nulla di buono o di diverso da quanto venisse fatto già: aria fritta, ma in un pack più costoso. Crede di essersi rintanato nel suo angolino di paradiso, ma io l’ho abbandonato. È riuscito a vendere ottimamente il suo ego, ma vale sempre e comunque poco. Prezzo e valore sono due concetti diversi.

Resto in silenzio, per indifferenza.

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Whitaker – #shortstory n.78

Non ho mai avuto un bel rapporto con la scuola. Poi, in qualche modo, abbiamo fatto la pace, ma devo ringraziare zio Milvio se non sono finito a fare truffe o spacciare per campare. E tutto quello che so di importante, è merito suo: la facoltà di economia ti insegna tante cose, ma per impararle e farle tue veramente devi avere un buon maestro. A giustificazione per la mia condotta potrei giocare facilmente la carta della morte di mamma, ma non penso sia quello il vero motivo. Ero uno stronzo già da prima e se non l’avesse uccisa quel Daily sgangherato, probabilmente l’avrebbe fatto il dolore che le avrei causato con una delle mille mie cazzate, cresciute di portata al passo con l’età.

Prima di uscire l’ultima volta per andare allo studio notarile dove lavorava, si era affacciata in camera e mi aveva sussurrato amorevolmente, sembrando di non farla sembrare un’implorazione “Io vado, fai il bravo” a cui seguì un “sì” d’ordinanza. Sapevamo entrambi che ci sarebbe voluto ben altro, però cercavamo di farlo bastare.

Non ce l’avevo con lei, naturalmente, e in fondo nemmeno con mio padre – con lui ho cominciato ad avercela dopo – ma era come se avessi avuto bisogno di trovare sempre nuovi limiti, spingermi sempre oltre, trovare il mio punto di rottura, senza sapere che qualora l’avessi trovato, sarebbe stato impossibile tornare indietro.

Così, pensando fosse un giorno come gli altri, non andai a scuola e con due complici, andammo a rubare due galline e un’anatra che rivendemmo nel paese vicino. Comprammo le nostre prime birre più qualcosa da mangiare e delle figurine di calciatori. Viaggiavo sulle rotte di una bellissima giornata, per questa nuova iniziazione, per questa nuova sfida, per non essere andato a scuola, per l’adrenalina e il sapore di birra che giravano in corpo. È durato qualche ora, fin quando non ho imparato a mie spese di dover sempre aspettare i titoli di coda prima di uscire dalla sala. O dalla vita. E quelle figurine mi ricordano ancora oggi un giorno da dimenticare, come le preci.

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Whitaker – #shortstory n. 77

La prima sigaretta non l’ho fumata, quasi l’ho ingoiata. Tiravo con forza, sentivo le guance rientrare nella faccia, quasi le sentivo sfiorarsi dentro la bocca. Per la voglia di bruciare le tappe, per sentirmi adulto, per la paura fottuta che mi beccassero, per correre ovunque non ci fosse infanzia e preadolescenza attorno. Sono riuscito a non tossire, ma gli occhi mi hanno lacrimato, un pizzicore sulla lingua, un sapore aspro e caldo. L’ho fumata fino in fondo e, dopo aver fatto l’ultimo tiro, con il filtro ormai bruciato e bollente, non sapevo che farne di quei resti consumati. L’ho fumata troppo, per far durare di più quell’esperienza, ma anche perché non sapevo il limite che, evidentemente, avevo superato. In ogni senso.

Ho esplorato nella memoria scene di film: nuvole di fumo, facce truci, arie soddisfatte, poi, tenendola tra due dita, con il medio l’ho lanciata e subito dopo rincorsa per andare a spegnerla e cancellare ogni prova della bravata. Di brace quasi non ce n’era più quando l’ho schiacciata, ma ho provato comunque un piacere elementare, un bisogno primordiale, quasi. Ma un po’ la stavo anche nascondendo sotto la scarpa.

Mi sono sentito grande, come non mai, nemmeno al primo bacio, un po’ dopo, mi sono sentito tanto enorme. In fondo sapevo quanto fosse solo fumo, ma non lo avrei ammesso nemmeno davanti al Padreterno. Avrò avuto dieci anni e mi hanno beccato, ovviamente. Oggi quando fumo, lo faccio sempre al buio, come a nascondermi. A me stesso e agli altri. Guardo la brace viva, ascolto il rumore della carta e del tabacco che si consumano o della vita che si accorcia, penso ogni volta con tenerezza a quel moccioso nascosto tra gli alberi, penso che dovrei smettere e dovrei cominciare a crescere: da bambini lottiamo per fare le cose da grandi, da adulti se non accettiamo di esserlo e imitiamo i piccoli, restiamo dei mocciosi.

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Whitaker – #shortstory 76

Tra i nostri collaboratori ce n’è stato uno, in particolare, che tutti abbiamo amato. Proprio tutti, non solo noi colleghi, ma anche i nostri partner, i nostri clienti senza differenza di ruolo o grado. Per i modi, la professionalità, l’empatia. La battuta pronta, la mano tesa, la spalla disponibile. Sempre. Non rientravano nelle sue risposte i “no” e i “non si può fare”. Mai.

Un giorno però, il suo corpo è stato preso in ostaggio: un cancro ai polmoni. Ha tirato fuori ancora più grinta, insieme a una rabbia condivisibile. I primi tempi non ci sono stati problemi: ha compensato le piccole carenze con più abnegazione, già al limite, e tutti gli hanno dato la massima collaborazione, facendo finta che tutto fosse come sempre.

Poi, però le cose sono peggiorate e le carenze sono diventate cazzate: dopo la chemio si è messo in auto e per poco non si è ucciso. Dopo essere passati in ospedale, zio Milvio e io abbiamo deciso di metterlo al riparo da probabili ripercussioni degli altri soci che non lo conoscevano o che se ne fottono delle persone, per i quali sono solo gente. Non lo abbiamo demansionato, ma affidato compiti meno in vista, così che le sbavature non potessero emergere.

Non ha apprezzato. Per niente. Si è imbestialito e ci ha incolpato di averlo messo da parte solo per salvaguardare il business, chiedendo quindi il supporto di chi non avesse, però, il coraggio di dirgli la verità. Ci ha insultati ma non ci siamo offesi né io né zio Milvio, consapevoli di averlo fatto per lui e di tutelare i profitti non ci è passato per la mente. Mai.

Lui non ce l’ha fatta e l’unico rammarico è che non c’è stato il tempo di chiarirci. Ho sempre creduto e sperato, però, che nel suo intimo – nonostante le parole di altro tenore – non abbia mai messo in dubbio l’affetto e la stima che ci legavano. Fare il bene di una persona non vuol dire fare ciò che desidera, ma ciò che è giusto per lei.

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Whitaker – #shortstory n.75

Andavo da G.d.A. una o due volte l’anno, circa. Facevamo affari insieme, ma non ne parlavamo mai. Quelli poi li lasciavamo a Graziano e Giuseppe, i nostri rispettivi collaboratori. Ne conservo una stima enorme, anche se non ci vediamo quasi più. A stare di fronte a certe persone, capisci cosa voglia dire rispetto, confronto, fiducia, amicizia. Può sembrare strano in un contesto lavorativo. Ma per me è fondamentale. Faceva fatica ad adattarsi ai cambiamenti, specie quelli repentini e improvvisi, ma necessari. Accoglieva il futuro con una linea di malinconia, però poi ci entrava e cercava di starci comodo. Lo salutavo sempre con una battuta, una risata e una stretta di mano sincera, a ringraziarlo del tempo che mi aveva dedicato e del suo insegnamento non imposto. Avrà avuto trent’anni più di me, ma non sentivo la differenza, se non per il baffo bianco e retrò.

Un giorno mi chiese un appuntamento fuori programma: accettai senza esitare e con un po’ d’ansia, per la verità. Mi aspettava sorridente nel parcheggio, quando arrivai, passeggiammo un po’ fuori l’ufficio e mi spiegò la novità: passava il testimone dell’azienda. Al figlio. Alessio, fino a quel momento si era divertito, era diventato maestro di salsa e bachata, ma ora era tempo che lasciasse i passi di danza per quelli nell’impresa di famiglia. Il signor G. aveva perso quella malinconia di fondo per far spazio a una gioia piena, orgoglioso che suo figlio fosse disposto a succedergli.

Il cambio di generazione era una magia che avveniva davanti i miei occhi e io ero felice di farne parte.

L’eredità non sono soldi o beni, che aumentano, diminuiscono, si sgretolano, cambiano i gusti.

La vera eredità è passare il testimone della vita con gioia, fierezza, onore: lasciarne traccia, insomma.

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Whitaker – #shortstory n.74

L’unico vantaggio della morte prematura è che ferma il tempo. Quando è morta mia mamma è stato un dramma, uno strazio anche se non ne cogliessi appieno la portata. A dodici anni hai una visione veramente semplificata del mondo, i cui confini coincidono con quelli infinitesimali del tuo. Non esiste altro e te ne fotti degli altri, persino di lei, tua madre, che è lì distesa immobile in quella chiesa, che puzza di incenso e di gente.

L’unico cazzo di guaio in quel momento è che lei non ti sarà più di aiuto, supporto, risorsa e soluzione per tutto il tuo esistere.

Oggi non riesco a immaginarmela diversa da com’era l’ultimo giorno che l’ho vista. Sarebbe ingrassata? Avrebbe tinto il bianco dei capelli? Quali sarebbero ora i segni della vita: rughe o cicatrici? Avrebbe lasciato mio padre? Lui, così diverso da lei, o dal ricordo che ne ho.

Semplicemente, lei non è anziana: continua a essere la gnocca quarantenne con l’aria furba da liceale. Sono io quello più adulto, quello più vecchio.

In fondo, devo sbattere il muso contro la triste verità di quanto poco la conoscessi e quel che mi è rimasto di lei è attraverso il riflettore sbilenco di un moccioso. E mi ostino a pensarla al presente come fosse viva e come se non fosse una semisconosciuta. Ho vissuto meno di un terzo della mia vita con lei, compresi gli anni inconsapevoli e impalpabili da poppante. Ad alcuni collaboratori e conoscenti ho dedicato decisamente molto più tempo.

Poi mi ricordo di una parola strana, prima si forma nella testa, ma appena dopo ne esce e si materializza sulla libreria di fronte, con le lettere che cominciano a ballare, a dimenarsi, pazze. Si sbracciano per farsi vedere. Sono talmente scalmanate nei movimenti che non riesco a leggerle nell’insieme, ma devo comporre la parola con lo spelling per coglierne il significato: Imprinting.

Boh, sarà quello, forse.

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