Whitaker

Zio Milvio è venuto a trovarmi in ufficio. Un’improvvisata. Ne fa, ma non spesso e io, anziché fare gli onori di casa, ho cominciato a lamentarmi di lavorare tanto, troppo, non avere tempo libero a sufficienza. E, intanto, ne stavo rubando un altro po’ a entrambi, invece di godermi il momento. Si alza, apre il mobile dove tengo le bottiglie e, con calma, si versa una generosa porzione di Lagavulin 16 anni, quello che sa un po’ di fumo, come dice lui. Poi, tra lo spazientito e il divertito, mi fa: “Diciamoci la verità: questa è come te la racconti. In realtà non sapresti starci nemmeno un mese, lontano dall’azienda.”

E comincia a ricordarmi di quanto mi gratifichi, diverta, appaghi, renda felice. Di come il lavoro sia ovunque nella mia vita, in ufficio e non.

Certo, capita la giornata no, in cui manderei – dice lui – affanculo il mondo, innocenti inclusi, ma questa è un’altra storia.

Lavorare, e fare questo nello specifico, pompa adrenalina, tiene vigile e svegli. Non è, probabilmente, nemmeno il legame emotivo con i collaboratori, l’azienda, i soci. Ci si può farne a meno, delle persone e delle cose, almeno così ci si convince.

È l’essere un ingranaggio di una delicata catena di montaggio a farmi stare bene, mi spiega. Sapere che senza di me, il sistema si fermi, si inceppi o anche solo rallenti: È magia e incantesimo.

Mi regala un potere, ma soprattutto una gioia, che lo stipendio e gli utili e i benefit non riescono a comprare. E poi c’è la fortuna di incontrare un sacco di gente. Individui capaci, illuminati, caparbi, ma anche incompetenti, quando non dei completi idioti. Brava gente e delinquenti. Truffatori e onesti padri di famiglia. Persone con una dignità solida da sorreggere palazzi e altri con la spina dorsale di formaggio spalmabile. Scaduto.

Da tutti si impara.

“E tu, zio Milvio non smettere di insegnarmi” – ma non l’ho detto, l’ho solo pensato. Non le diciamo mai abbastanza certe cose, però in qualche modo, trovano la strada per arrivare.

#WhitakerAcademy

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